Religione

Mani comunicanti nella statuaria processionale rubastina

“Mani comunicanti nella statuaria processionale rubastina” è il tema d’indagine dell’architetto Lidia Sivo per questa Settimana Santa 2019 targata ruvesi.it (foto di Domenico Tambone).

L’arte si serve di un linguaggio non verbale i cui codici si sono sviluppati nel tempo per meglio palesare il significato dell’immagine rappresentata. A tal proposito Salvatore Settis scrive che “La storia dell’arte non coincide con la storia dei gesti, ma ha bisogno anche della storia dei gesti, che ne sono una componente essenziale”1. I protagonisti delle opere d’arte sono infatti muti. Ciononostante, parlano all’osservatore utilizzando il linguaggio del corpo, sostituendo le parole con gesti, atteggiamenti ed espressioni. Riconoscerne il significato è importante per una comprensione esaustiva di un dipinto o di una scultura. In particolare, si individuano due tipologie di gesti: quelli descrittivi, che indicano un’azione o manifestano il ruolo di un personaggio e quelli espressivi, che riferiscono di stati d’animo o sentimenti. Questi ultimi, riguardano soprattutto la posa di braccia, mani e gambe e sono disciplinati da una lunga tradizione iconografica.

Per esempio, nell’arte medievale non erano i visi ad esprimere sentimenti o emozioni, ma i movimenti del corpo e delle mani. La teoria dei “moti” espressivi ha innegabilmente in Leonardo da Vinci un interprete di grande efficacia ma era già stata espressa sin dai primi del Quattrocento da Masaccio e da Leon Battista Alberti con il trattato De Pictura, in cui si legge chiaramente che i “moti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo”2.

In questa breve trattazione, l’attenzione sarà rivolta in particolar modo al linguaggio delle MANI, la cui rappresentazione è talmente articolata che, da sempre, buona parte del lavoro degli artisti si è incentrato sullo studio e sull’analisi della loro gestualità. Infatti, nessun gesto delle nostre mani è sprovvisto di significato.

Alla riflessione sul gesto comunicante della mano, sono stati dedicati specifici trattati: la Chirologia ne studia il linguaggio naturale composto da moti e gesti.

Soffermare l’attenzione sul linguaggio delle mani, può pertanto suggerire una lettura nuova delle composizioni statuarie rubastine, rivolta non tanto ad un’analisi stilistica, quanto alla comprensione del valore espressivo dei gesti rappresentati e alla loro capacità di comunicare con immediatezza sentimenti, stati d’animo e reazioni dei personaggi raffigurati.

Per questa carrellata di mani comunicanti nella statuaria processionale rubastina, ho voluto prendere avvio dalla Chirologia del 1644 di John Bulwer (1606-1656)3, perché le sue tavole illustrate sono altamente efficaci ed immediate. Bulwer pose l’attenzione su gesti delle mani che sono comuni nel mondo occidentale e intesi da sempre da tutti4.

1 M.L. CATONI, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Torino, 2008.
2 L.B. ALBERTI, De Pictura, Libro secondo, cap. 41.
3 J. BULWER, Chirologia, Il naturale linguaggio delle mani, 1644.
4 A. FINOCCHI, Le mani parlanti, Italia Nostra e Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015.

Supplico = supplico, imploro

Il gesto dell’orante, fin dai primi secoli cristiani, è quello con le braccia aperte e le mani distese. Si possono rintracciarne le origini nel mondo pagano come pure nell’Antico Testamento. Tale atto si riconosce nella preghiera di supplica, intesa come preghiera umile di chi, con fervore, invoca aiuto, indulgenza, misericordia.

L’alzare le mani è anche segno di resa nei confronti del Signore. È affidarsi completamente come un bambino si affida nelle mani del proprio padre. E’ anche darsi slancio verso Dio.

Alzando le mani verso l’alto, le palme sono aperte. Segno di colui che chiede, che riconosce la propria povertà, che aspetta, che mostra ricettività di fronte al dono di Dio.

Ritroviamo tale gestualità nelle mani della Madonna Desolata, aperte quasi ad abbracciare il legno nudo della croce, manifestazione di una preghiera di supplica dolorosa come si evince dal fazzoletto bianco, ma al tempo stesso composta, perché speranzosa e pregna di fede.

La stessa gestualità la ritroviamo nel simulacro della Pietà, in cui la Vergine, col corpo inerme del Cristo abbandonato sul grembo, apre le braccia e, con le palme delle mani rivolte al cielo, invoca la sua supplica, offrendo al Cielo il doloroso sacrificio del Figlio.

 

Ploro = piangere disperatamente

Le mani giunte e saldamente intrecciate sono sinonimo di pianto doloroso. Dal latino in- plorare «gridare piangendo, lamentarsi» e quindi chiedere supplichevolmente, con preghiere e con lacrime.

E’ il gesto tipico dei personaggi che circondano la Croce del Cristo morente, accompagnati dal volto contratto nel dolore, lacrime e sguardo rivolto al cielo.

Nelle Madonne Addolorate, il dolore della Vergine è espresso dalle mani dolorosamente contratte e intrecciate che sporgono dal blocco compatto della figura avvolta nelle nere gramaglie, simbolo di un forte dolore vissuto interiormente ed esteriormente attraverso le lacrime ma dominato e contenuto.

Lo stesso gesto nel simulacro di San Pietro, il quale piange disparatamente con le mani giunte e invoca perdono per aver rinnegato il Cristo.

Oro = prego

Il gesto delle mani giunte nella preghiera è di origine feudale. Infatti, durante il medioevo, il gesto del pregare a braccia aperte, diffuso sin dall’antichità, venne sostituito da quello con le mani giunte, sia per imitazione del gesto del vassallo che nella cerimonia di investitura pone le sue mani giunte in quelle del feudatario in segno di sottomissione, sia per influenza dell’ordine francescano, che vi vide l’espressione di un più sentito raccoglimento.

Troviamo questo gesto nella preghiera di Gesù nel Getsemani, con un meraviglioso significato: io metto le mie mani nelle tue, le lascio racchiudere dalle tue, in un moto di totale fiducia e abbandono.

Despero = non ho più speranza

Un altro gesto mutuato dall’arte antica, che esprime impossibilità di reagire, di solito attribuito a vittime impotenti e afflitte, è dato dalle mani, incrociate o sciolte, in pronazione sul grembo.

Una variante, a volte presente nelle scene altamente drammatiche della Passione di Cristo, sono le braccia e le mani inerti, completamente abbandonate lungo i fianchi. E’ il gesto dell’impotenza, dello sconforto, di tristezza profonda e presagio di morte. Ne è un esempio, il simulacro della Deposizione, in cui la tragicità della morte di Cristo è espressa dalla Vergine attraverso un desolato e totale abbandono delle braccia lungo i fianchi, quasi che anche la madre fosse morta insieme al figlio. In particolare, l’osservatore si concentra sulla mano che regge, sfiorandola appena con i polpastrelli, la corona di spine.

Un altro gesto, di tipo descrittivo e allo stesso tempo altamente espressivo, riconducibile a questa casistica è quello delle mani legate ai polsi, nel simulacro dell’Ecce Homo. Nonostante sorreggano una canna come scettro, l’abbandono della mani incrociate sul grembo, con i polsi legati, manifesta il dolore solitario del Cristo, abbandonato da tutti e rassegnato ad una sorte terribile.

Fleo = piango

Coprire il volto con le mani indica uno stato di dolore e afflizione, meditazione mista a profonda tristezza. La mano sul volto vorrebbe proteggere le emozioni più intime dallo sguardo attento dell’osservatore. Si tratta del gesto tipico dei dolenti, espressione di una sofferenza profonda ma controllata con dignità. Non è un gesto di disperazione, non è sintomatico di un dolore passeggero; al contrario, traduce una sofferenza duratura, che il tempo non può alleviare. Nella storia dell’arte è il gesto tipico dei personaggi che assistono impotenti alla crocifissione di Cristo. In particolare, lo ritroviamo nel simulacro rubastino della Deposizione, magnificamente riprodotto nella posa di Maria di Cleofa. Anche la mimica facciale, in questo caso, aiuta a comprendere lo stato emotivo del personaggio.

Pudet = si vergogna, ha pudore

Chi prova vergogna sente il desiderio di coprirsi e non rendersi visibile agli altri. Da ciò la necessità di usare le mani per schermare la nudità del corpo o più in generale per ripararsi dal giudizio di chi osserva.

Nella statuaria rubastina troviamo questa gestualità nel simulacro della Deposizione, nella figura della Maddalena, erroneamente riportata dalla tradizione come la meretrice convertita citata nei Vangeli, la quale tenta di coprire il proprio corpo con le mani e i lunghi capelli, per sottrarsi all’imbarazzo della nudità.

Indico = indicare

Il gesto dell’indicare, che tutti conosciamo, con l’indice puntato verso ciò che si vuole specificare, assume un ruolo determinante nella composizione delle opere d’arte di tutti i tempi. La mano guida sempre l’occhio di chi guarda. E chi guarda è spinto a seguire quel gesto e a individuare chi o che cosa ne è l’obiettivo, cioè a decifrare il soggetto dell’opera nelle intenzioni dell’artista.

Nel simulacro della Deposizione, i cui personaggi sono collegati tra loro da una fitta rete di sguardi e di gesti delle mani, una della mani della Vergine, con le braccia scivolate sui fianchi in segno di completa afflizione, indica timidamente con l’indice la figura del Cristo morto. Il gesto del “fare segno col dito”, sposta lo sguardo dello spettatore sul corpo inerme di Cristo e chiarisce il motivo di cotanta sofferenza e dolorosa afflizione.

 

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