Cultura

VINCENZO CALDAROLA, UN RUVESE ALLA CORTE DI FELLINI

Ruvo di Puglia legata a un mito del cinema come lo è stato Federico Fellini. A cento anni dalla sua nascita, 20 gennaio 1920, l’Italia ricorda uno dei più brillanti registi, sceneggiatori, fumettisti e scrittori che la nostra nazione abbia mai potuto vantare e che al regista riminese deve moltissimo.

Le sue opere, ricche di satira e velate di una sottile malinconia, lo hanno reso uno dei personaggi più celebri e apprezzati in tutto il mondo del cinema.

Una comparsa in uno dei suoi film più celebri “Amarcord”, ci dà lo spunto per parlare di Federico Fellini. Il titolo dell’opera deriva da una univerbazione della frase romagnola “a m’arcord”, ovvvero “io mi ricordo”, rappresenta senz’altro il film più autobiografico dello stesso: attraverso gli occhi del suo alter ego, Bruno Zanin, Fellini ricorda il suo paese, la sua giovinezza, i suoi amici e tutte le figure che hanno fatto parte della propria vita.

Ed è proprio nel cast di “Amarcord” che accanto ad attori come Marcello Di Falco, Magali Noel, Aristide Caporale, Dante Cleri, Marcello di Falco, Francesco di Giacomo, Nella Gambini, Franco Magno, Fides Stagni e Alvaro Vitali, Fellini inserisce anche un ruvese. Si tratta di Vincenzo Caldarola, nato a Ruvo di Puglia il 22 febbraio 1922 da papà Giacomo e mamma Anna Minafra. Ben il presto il giovane è costretto a lasciare la sua terra natia e i suoi affetti più cari per emigrare, alla ricerca di fortuna, nella città eterna. I suoi piani, però, non vanno a buon fine e così Vincenzo si vede costretto a  dormire sotto i ponti, a vivere di elemosina nei pressi di Piazza del Popolo a girare per la città come un clochard carico di buste di plastica.

Il grande regista lo nota, e forse anche per le sua imponente fisicità “Ma a dispetto dell’apparenza aveva una natura spiccatamente sensuale” lo sceglie per interpretare il ruolo dell’emiro che arriva al Grand Hotel col codazzo del suo harem protetto dagli àscari armati di scimitarre.

Dalle parole utilizzate da Fellini emerge che, con ogni probabilità, Vincenzo, anche sul set, parlasse il vernacolo del nostro paese: “Era una creatura dall’eloquio quasi incomprensibile”. Inoltre, dagli scritti del regista riminese ci è dato di sapere che il nostro concittadino avesse una grande capacità nel leggere la mano in una modalità particolare: “Non tanto basandosi sulle linee codificate da un’antica arte divinatoria a lui giunta per tradizione orale, quanto piuttosto soffermandosi sulla consistenza della pelle, il calore, gli avvallamenti, i rilievi, le pieghe. Prendeva la mano tra le sue e la palpava come farebbe un cieco, cercando nell’architettura anatomica le risposte alle interrogazioni. Sembrava percorrerla come una carta topografica e ne ricavava spesso intuizioni impensabili”.

Vincenzo, qualche tempo dopo la sua comparsa in uno dei film che, nonostante il tempo, continua ad esser annoverato tra i più belli ed interessanti del panorama cinematografico italiano, lasciò la capitale per tornare a Ruvo di Puglia dove si spense nel 1980.

Indizi raccolti anche grazie all’impegno consueto di Nino Ribatti, funzionario dell’ufficio Anagrafe del nostro comune, di Vincenzo Bernardi e Antonio Pellicani, Luciano Di Gioia.

Ambientato a Rimini all’inizio della primavera del 1932 all’inizio del ventennio fascista, “Amarcord”, che come tutte le opere del grande maestro del cinema italiano è caratterizzate da uno stile onirico e visionario, narra la vita degli abitanti dell’antico borgo tra feste paesane, adunate del “sabato fascista” e la scuola. Diversi i personaggi posti in rilievo, tra signori di città,  negozianti, il suonatore cieco, la donna procace alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l’avvocato, la tabaccaia dalle forme giunoniche, i professori di liceo, i fascisti, gli antifascisti e il magico conte di Lovignano. Un’attenzione particolare viene riservata, poi, ai giovani del paese in preda ad una prepotente “esplosione sessuale”. Tra questi ruolo di spicco viene conferito al personaggio di Titta Biondi che inizierà un percorso che lo condurrà, pian piano, alla maturità. Accanto a lui, in risalto anche le persone appartenenti al suo nucleo familiare: il padre, la madre, il nonno, il fratello e gli zii, di cui uno matto, chiuso in un manicomio.

Diversi e prestigiosi i riconoscimenti che l’“artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”, come Fellini stesso si definiva, ha ottenuto durante i suoi quarant’anni di carriera. Oltre ad esser stato candidato per ben 12 volte al Premio Oscar, con tanto di Oscar alla Carriera ricevuto nel 1994, il regista riminese ha altresì vinto due volte il Festival di Mosca, la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960 e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985. L’Oscar al miglior film straniero è arrivato, poi, grazie ai suoi celebri film “La strada”, “Le notti di Cabiria” e “Amarcord”.

 

 

 

 

Un pensiero su “VINCENZO CALDAROLA, UN RUVESE ALLA CORTE DI FELLINI

  • Bruno Zanin

    Vincenzo calderola in Amarcord non se c’è soltanto il ruolo dell’emiro non si vede anche nella scena della neve mentre Titta corre dietro alla Gradisca in quella birinto di di neve Appunto lo vediamo seduto accanto alla chiesa mentre il parroco scopa la neve e saluta Titta gli dice: come sta la tua mamma come era tanto buona la tua mamma mi dava sempre qualcosa in quella scena Vincenzo calderola faceva se stesso

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